Stromboli

17.01.2022

Da sempre, fin dalla mia nascita, sapevo di vivere in un luogo particolare, forse pericoloso ma di rara bellezza. Fin da subito avevo preso "confidenza" con il vulcano, come se fosse uno di famiglia. Certo sapevo della sua irruenza, della sua imprevedibilità, ma forse, un po' per innata incoscienza, un po' per spirito di rassegnazione, avevo imparato ad amarlo. Lo temevo, ma era come se non potessi fare a meno di lui.

Fabio Famularo, Storie e leggende sotto il vulcano, p. 53.

Al porto è schierato un plotone di ape e motorini: è tutto un ronzio di uomini e donne in attesa. Alcuni fumano, si appoggiano sulle ginocchia, stanno nascosti sotto cappelli di paglia. Quando l'aliscafo sbarca, il molo è invaso da una folla di turisti, rumorosi e scompigliati. Gli isolani li acchiappano, ne afferrano i bagagli, e via: alla volta degli hotel, le case vacanza. In un attimo torna il silenzio, rotto soltanto dallo sciabordio sommesso delle piccole onde mattutine. Un gatto guarda lontano. Dietro i suoi occhi, Stromboli.

Terra di Dio, le pendici abitate del vulcano protese verso est, a raccogliere il giorno che nasce nell'acqua. Fatto sta che alle sette del mattino già il sole brucia. Al bar del porto, un ragazzo biondo dal petto imberbe è accasciato su una sedia di paglia. Si direbbe che attende qualcosa. Gli occhi semichiusi, però, la fronte appena imperlata di sudore, dicono altro: non ha impazienza. Dietro di lui una giovane robusta si nasconde dietro una vetrina e adocchia i passanti. Mi fissa per un secondo, sorride. «Granita? Brioche», mi adesca. La voce tradisce un accento di Europa dell'Est. Tutto il mondo è Oriente, e da secoli immemori questa è terra di migrazioni. Da Odisseo ai lavoratori stagionali.

Mi siedo e mi godo il sole che mi scioglie la granita. I grani di ghiaccio luccicano.

Per le vie un uomo dai forti polpacci cammina a piedi nudi. Un altro scarica della merce da un furgoncino azzurro. Chi altri? I turisti impigriti tardano a riversarsi nei vicoli che portano alle spiagge. Solo qualche gatto sbadiglia su un muretto, un davanzale, un bisolo. Ogni giorno la stessa storia - chi scende a mare a rotolarsi nel sole e chi si aggroviglia nei lacci urbani a sbrogliare faccende quotidiane.

Chissà se il vulcano si accorge della nostra routine. Ogni giorno ci affanniamo, instancabili o quasi, sulla sua schiena. Lo calpestiamo con piedi, ruote, bici e motorini. Il nostro formicare lo solletica? Che ne pensa del sole, che ogni giorno ci sveglia e ci mette a dormire? Conosce i ritmi del nostro trascorrere?

Alle 8 e 45 si sveglia, lui, Iddu. Uno sbuffo, niente più, che inseguiamo su per via Natoli. Ma la notte è prodigiosa: un vento caldo ci toglie il sonno, scompiglia le tende, squassa le finestre. Gli eucalipti stormiscono. E il giorno dopo il cielo è invaso di nubi dense e minacciose.

Un giorno qualcuno mi ha chiesto: come si fa a vivere giorno per giorno con la paura che il vulcano erutti?

Una signora grassa mi ha risposto. Stava ferma davanti alla Pro Loco e parlava con qualcuno all'interno. Discutevano dell'attività recente di Stromboli.

«Lui è buono, è gentile», rassicurava la signora. «Non vuole farci del male».

L'attività stromboliana - che rende quest'isola e il suo vulcano unici al mondo - è un borbottio sommesso e sottostante, costante. E' come il retro, oscuro, di un palcoscenico. Come i retroscena mai chiariti di un caso. Dietro ogni cosa, sull'isola, c'è il vulcano: che erutta, a intervalli irregolari, frammenti altrettanto irregolari di lava e cenere.

Le agavi svettano, morte, e noi rubiamo fichi. Il mezzogiorno inclemente ci spinge in un triangolo d'ombra, mentre facciamo la fila all'unico forno del paese. Focaccia, pane, e una donna araba a servirli. Lavora ogni giorno, quasi tutto il giorno. Come si vive qui?, le chiedo.

«È semplice», ride. «Se uno sta bene con se stesso sta bene anche qui».

E come non qui? Dove le case sono una manciata di dadi stesi sul fianco della montagna, e le stelle di notte le riflette il mare del cielo, e le cicale friniscono, ed è allora che l'uomo ode, in lontananza, la flebile voce del Mediterraneo.

Blu sono molte porte, le finestre anche, come in Grecia e nella Grecìa pugliese. E bianche sono anche le case, di quel bianco accecante che è forse motivo d'igiene oppure tentativo di abbaglio (per i Saraceni, s'intende) o ancora sgargiante dichiarazione di mediterraneità.

Il momento più bello è la notte, quando un manto pesante cala sulla via principale e gli uomini si ostinano a calpestarla. Non un lampione a illuminarla, solo i fari accecanti degli sporadici motorini, qualche cellulare acceso, l'insegna dei tabacchi, e gli occhi brillanti dei passanti rimasti, che, nel cercarsi, si dicono spaesati di una tale invadente oscurità.

Nero è il colore del mio non sapere, la sera, sulla terrazza buia spazzata da un vento straniero. Nera è anche la sabbia, cocente, delle spiagge più e meno battute. In lontananza si vede Strombolicchio, un vecchio cratere ormai spento, che la leggenda vuole essere il "tappo" di Stromboli precipitato in acqua. Le onde biancheggiano, tira grecale. C'è un unico ragazzino in acqua, che gioca a prendersi i frangenti sul petto. Ha lo sguardo fiero di chi pensa che sia una prova evidente di precoce virilità.

A Forgia Vecchia paesaggio lunare. Crepuscolo, ombra, poche barche in rada. Scivoliamo sotto il pelo dell'acqua. Siamo sole, nude. Su di noi svetta una torre che ha in cima un cratere, una torre che è un maschio, che è lui.Ridiamo della nostra piccolezza - come rane che si muovono sopra il ventre della Terra. Chissà cosa c'è al di sotto del mare. Chissà se è lui anche quella propaggine immersa, regno del buio.

Dal sentiero costeggiato da eucalipti si vede la chiesa, il paese tutto, e la sommità del vulcano. Torniamo dalla spiaggia che è ora di pranzo, sul belvedere della piazza c'è folla, accalcata al bar Ingrid. «La migliore granita mai mangiata in Sicilia!», si stupisce una ragazza. Granulosa, ghiacciata, con pezzi di mandorla intera, confermo. Per la verità, sembra incredibile che questo angolo nord-orientale di Eolie sia ancora Sicilia, adolescente pezzo staccatosi dalla madre, alla deriva.

Quando incontro Stefano e Nella è l'ora dei turisti. Le 17, quando gli aliscafi fanno l'inchino, il mare smuove le barche dei pescatori, e Iddu li saluta pigro. Neanche un'esplosione, in tutta la giornata. Li trovo al porto, poco oltre i baracchini che offrono tour in barca alla Sciara del Fuoco e a Ginostra. Vengono da Catania, ma trascorrono qui ogni estate, vendendo prodotti tipici: vini nelle bottiglie di plastica, origano e capperi in buste da freezer, pomodori secchi, frutta e verdura. Il "negozio" è una semplice ape car rossa. Con loro c'è anche il piccolo Davide, che infilza il bicchiere del tè con la cannuccia, addenta un panino e mi dice:

«Io da grande voglio fare il capitano di una nave!»

«Di una nave grande come un traghetto», gli chiedo «o di una nave piccola come un peschereccio?»

I baffi di Stefano sorridono. La piccolezza non è cosa da bambini.

Poco più in là, un'ape quasi identica è diventata un cocktail bar che promette ai turisti: "WINE". Una donna tutta curve cerca di adescarmi all'assaggio, ma dei vitigni dell'isola - rari e autoctoni - ho letto quel che basta per sapere che non troverò certo il vino locale da lei.

Della strada del Fuoco non si può dire nulla, se non che è esattamente quel che dice il nome: la via d'accesso per la meraviglia dell'eruzione, ancor meglio se su una tela notturna. Il fascino sta nell'arrivarci, perdersi in un labirinto di alberi e arbusti, puntini umani nel verde, sempre più in alto, con ai piedi un presepe di bianchi villaggi, sempre più lontani. A ogni passo domandarsi: stai davvero inerpicandoti sul fianco di un vulcano attivo? E poi diluirsi nell'immensità - come volle un poeta - del mare circostante, l'orizzonte mal sigillato che fa acqua e perde da ogni parte. Infine si sosta, con altri, quelli che arrivano, ansanti oppure no, condividendo una vista - come al cinema, una storia vecchia di millenni.

Dal mare il profilo squadrato di una casa - merlature arrotondate, camino conico - impedisce la vista del vulcano. Casa bianca, sabbia nera, e tutt'intorno verdi ciuffi di finocchietto di mare.

Sono alla fine del mio tempo a Stromboli. Scendo alla Grotta d'Eolo, a Piscità, dove la costa si frastaglia in piccole insenature rocciose, e la battigia, nascosta, si svela a poco a poco. Lucida, rotonda, accogliente.

Anche le isole hanno seni. Anche le isole hanno cavità nascoste. Chi soggiornò, chi rifugiò in questo anfratto? La leggenda narra che qui siano custoditi i "venti impetuosi" di Eolo, gli stessi che chiuse in un otre e donò a Odisseo affinché potesse giungere a Itaca.

Sopra la grotta passano nuvole che sfiorano Iddu. Un ragazzo insegue una ragazza, appena fuori dall'acqua.

Quale sarà il vento che mi riporterà a casa, lontano da qui, lontano dall'isola?

Ritrovo i due giovani sull'aliscafo per Milazzo. Ancora con i capelli umidi, la pelle nuda della giovinezza, nella rete dello zaino un paio di infradito sporche di granelli neri.

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