Pantelleria

07.01.2021
Se fossi un occhio, proiettato in alto nel cielo, la vedresti con chiarezza: una forma geometrica corrugata, irregolare; a volte una punta al centro, a volte più d'una.
Una ferita di terra in mezzo al mare.

ARRIVO

Arrivo a Pantelleria dal cielo, su un aereo che sembra più grande del mare, ma che si fa via via più piccolo man mano che l'isola, sotto di me, s'ingrandisce. La pista lunghissima è in alto, a qualche centinaio di metri sul livello del mare. Intorno non si vede nulla, solo il cielo, fosco.

La macchina che l'autonoleggio mi affida è vecchia e polverosa. Mentre la guido, giù dalle tortuose vie deserte dei dintorni dell'aeroporto, mi rendo conto che tutto, lì, è polveroso.

È il giallo delle case, che è così polveroso? Le case appaiono stanche. Di un colore slavato e pallido, che mi ricorda altre isole e altri luoghi, Malta per esempio. Non c'è nessuno. Intorno, la vegetazione è aspra. Tira un vento forte, ancora non vedo il mare.

Arrivati sulla perimetrale, compaiono altri veicoli. Poche svolte, ed è la Città. Il Paese, la hora. Quel nucleo cittadino che, sulle isole, di solito, prende il nome dall'isola stessa. Qui, è Pantelleria. C'è gente, c'è vita! Parcheggio in uno squallido cortile fra palazzi (potrò? Non ci sono strisce, non ci sono macchine, solo erba tra mattonelle, ghiaia, lenzuola appese ai balconi) e seguo i rumori, mi tuffo tra le vie.

Giro un angolo e subito si spalanca il porto, un'ansa di mare fermo, artificiale. L'acqua è cosparsa di piccole barche turistiche, più lontano si stagliano i cargo merci. Il lungomare è, a tutti gli effetti, un lungoporto. C'è qualche bar aperto, ma pochi avventori. Una donna enorme coperta di tatuaggi urla qualcosa in siciliano all'omino che vende bandane e cappelli di paglia. Ha appena comprato un'Audi nuova fiammante. Un vecchio baffuto la osserva compiaciuto, le fa i complimenti. Chissà cosa fa un'Audi fiammante su un'isola vulcanica, mi chiedo.

Ho voglia di caffè. Ma dove prenderlo? Tutti i locali sembrano frequentati solo da gente del posto. Un'insegna promette granite artigianali, al suo fianco due ragazze bionde, dall'accento straniero. Mi siedo all'ombra e aspetto. La cameriera è una studentessa fuori sede a Bologna, mi serve con gentilezza, ha il sorriso timido e curioso di chi ha mancanza dell'altrove.

"D'estate torni qui per lavorare?", le chiedo.

"Bè, sì, naturalmente", mi risponde imbarazzata. "D'estate bisogna pur tornare, altrimenti chi rimane qui a lavorare?"

Eh già, chi rimane a lavorare, qui? Non c'è ombra della solita ossessione per il "lavorare". Piuttosto, s'intravede la consapevolezza di ciò che, qui, significa restare.

È l'una, ma il sole è reso clemente dalla brezza che spazza l'isola. Cammino sola per le vie del paese. Non c'è nessuno che passeggia, e del resto non c'è nulla per cui passeggiare: i negozi sono pochi, forse a quell'ora chiusi. I marciapiedi non sembrano fatti per accogliere il transito molle dei pedoni. Alcuni motorini sfrecciano invece a tutta velocità.

Trovo quello che cerco sempre: un dedalo, un intrico di strade strette, per potermi perdere, per potermi ritrovare. Non c'è un'anima. Sedie bianche impilate riposano abbandonate di fronte a una casa. Un cartello sbilenco pende da dietro la polvere di un vetro: vendesi.

È la vecchia kasbah, la città vecchia. I tetti degli edifici sono piatti, fatti per raccogliere la scarsa pioggia, non certo per lasciar scivolare la neve. I palazzi sono bassi, due piani al massimo. Alcuni cortili aprono squarci di cielo. Una finestra blu richiama il cielo, e verso il cielo si protende la toppa di un fico d'india.

All'incrocio con la perimetrale, un fruttivendolo grasso e sudato domina muto il suo angolo di frutta e verdura. È tutto un giallo di meloni. Poco più in là, fa capolino una delle due pompe di benzina dell'isola. C'è una uno bianca ferma, una signora dalle gambe grosse e il vestito leggero si sta rifornendo. Ha la fronte imperlata di sudore.


Supero la pompa e mi spingo a est. Sono lontana dalla macchina ormai un paio di chilometri. Le prime onde le incontro a Punta San Leonardo. C'è mare forte, la schiuma bianca si schiaffa sugli scogli. Finalmente: i confini rocciosi dell'isola. Le pietre hanno un colore rossastro che le fa sembrare infuocate. Inquadro il blu in una spaccatura di pietra e cerco con gli occhi un appiglio, un approdo: da dove poter scendere in mare?

Dalla punta di uno scoglio guardo la distesa del mare e provo a immaginarne la fine. Chiudo un occhio e mi figuro la Sicilia, oltre l'orizzonte, vasta e immensa. Ancora non so che la prima terra che vedrò, dopo il grande mare, nel dirigermi verso Trapani, non sarà la falce protesa della "grande isola", ma un'altra isola, più piccola, dalla strana forma di farfalla.

L'ISOLA

Pantelleria è un'isola a siluro, orientata nord-ovest / sud-est. La città si trova all'estremità nord-occidentale, dove il mare incontra il tramonto a lato sinistro. Da una parte dell'isola si può vedere il sole nascere al mattino, e dall'altra si può vederlo cadere nella notte. Se si ha una macchina e tanta voglia di percorrere in un giorno i 52 km di perimetro, su una strada tutte curve, si può inseguire la corsa del sole e vederli tutti e due.

Quando il sole cala, è meglio non guidare: la notte, è notte. La gente del posto lo fa, naturalmente. M. mi invita a trascorrere con lei una serata: "però stacco a mezzanotte da lavoro", mi dice. A mezzanotte?!, penso io.

La notte: la perla nera dell'isola. Non riesco a figurarmi di trascorrerla diversamente che dormendo un sonno buio e profondo, fresco e ristoratore. Di notte le stelle invadono il cielo e l'isola, chissà, vista dall'alto somiglierà anch'essa a un astro, tremulo, un fuoco fatuo. Di notte le temperature calano bruscamente, non si può stare fuori, ad agosto c'è freddo. La gente del posto ci sta, naturalmente. Di notte non ci sono che le luci rare dei dammusi, e la vegetazione, intorno, prende il colore delle tenebre. Nella valle di Mueggen riesco a immaginare M. che guida leggera: è l'una di notte, e una macchinina bianca serpeggia tra un buio di capperi e viti.

Pantelleria è nera, di notte e di giorno. La terra porosa e scura che si incontra lungo le coste è di origine vulcanica. Lo si vede bene a Khattibuale, dove distese piatte di pietra nera sembrano lingue di lava. Quando il sole è basso abbastanza da riflettersi nelle pozze d'acqua che il mare lascia, il paesaggio ha un che di lunare.

"A Khattibuale, a Khattibuale devi andare. Noi ci abbiamo un dammuso", mi dice C., la signora che mi ospita. Ha un accento rotondo, più morbido del siciliano a cui sono abituata. "Ci andavamo con i bambini. È facile, lì, scendere a mare."

A Pantelleria le spiagge non esistono. La costa è un susseguirsi di cale, più o meno facili da raggiungere. La macchina la si lascia nei parcheggi lungo la perimetrale, nella terra polverosa, e si scende a piedi, per sentieri stretti, pieni di ciuffi d'erba e steli di carote selvatiche. Soltanto a volte la strada asfaltata si snoda, a tornanti, fino a giù: sono le cale più famose, Cala Levante, Cala Tramontana, Cala Gadir. La più tortuosa è la discesa a Balata dei Turchi, sul lato sud dove tutto è più selvaggio, dove gli steli d'erba ingialliti invadono la carreggiata della perimetrale. La macchina sobbalza per venti minuti su uno sterrato ripido, davanti e di fianco non v'è che l'azzurro del mare, pare di guidare dritti nell'acqua. Dietro non resta che un gran polverone.

Chissà se da sempre gli abitanti hanno desiderato scendere sulla battigia a bagnarsi, oppure se è esistito un tempo in cui l'uomo non aveva con il mare che un rapporto di comodo, ittico o nautico.

A Cala Bue Marino frotte di ragazzini si accalcano per tuffarsi da un alto scoglio. C'è gente abbandonata sui teli che legge. Penso a un uomo che esca dall'ufficio alle 18, si sfili l'abito e indossi il costume - ma esistono uffici, qui? La pietra calda sotto il mio corpo mi suggerisce che, qui, la natura ha tutte le carte in regola per essere immaginata senza l'umano.

Sulla linea dell'orizzonte vanno e vengono traghetti. Portano qualcosa, forse prendono qualcos'altro.

Oltre a Pantelleria paese, di urbano sull'isola vi sono altri piccoli centri, che raccolgono qualche casa, qualche incrocio di vie, qualche negozio, addirittura un cinema: Khamma, Tracino, Scauri. È lì che ci si può rifornire di cibo. Nei market c'è un po' di tutto, se non si hanno pretese. Ma sull'isola, di autoctono, c'è molto poco: zibibbo, cappero, pomodoro, agrumi.

Sulle pendici della Montagna Grande e dei rilievi minori, ma soprattutto nelle valli interne, luccica un verde brillante, misterioso per un'isola che non conosce quasi mai la pioggia. Sono campi sterminati di fusti bassi e foglie larghe, quella che è nota come una pratica tradizionale del luogo e che, per questo, ha ottenuto la tutela UNESCO: la "vite ad alberello". Oppure terrazzamenti di piante di cappero quasi in fiore, che paiono teste di medusa.

Sulla costa ovest, poi, c'è un luogo dove il verde e il nero si mescolano da tempo immemore. Ciuffi di fichi d'india costellano una distesa di rigonfiamenti del terreno, piccole collinette coperte di arbusti. Al di là di una duna, sbuca, inaspettata, una costruzione tondeggiante, fatta di blocchi di pietra scura: è un sese, una struttura megalitica ad uso funerario risalente a migliaia di anni fa.

Piccole aperture sui lati conducono all'interno del sese. Mi chino e tuffo la testa in una di queste. Non vedo che nero, umido, fresco. Annuso un buio vecchio di millenni.

Al di là degli spessi muri di pietra c'erano, un tempo, cadaveri. Chissà quale offerta veniva data, allora, ai morti. Quale alle divinità. È da cinquemila anni, penso, che, sotto questo sole, in mezzo al mare, gli uomini nascono e muoiono.

INCONTRI


Chiedo a C. che cosa faceva suo marito, da giovane.

"Il muratore", mi risponde.

Io provo a immaginare cosa sia un uomo su un'isola senza il mare.

"Il pantesco non è pescatore", aggiunge lei, quasi leggendomi nel pensiero. "È contadino. Ma siccome noi la terra non l'avevamo, mio marito è diventato muratore. Questo dammuso l'ha fatto lui, sai. E ancora oggi aggiusta case."

Le distese di verde, all'interno. La vite ad alberello, i capperi. Ecco dov'è rivolto l'uomo sull'isola: all'interno. La costa è irta e impraticabile. Eppure il mare, il mare - una linea blu all'orizzonte, un orizzonte d'attesa. Come si fa a non vederlo? Io avrei bisogno di svegliarmi e vedere il mare.

"Mio marito ha costruito un dammuso da cui il mare si vede sempre. Guarda, laggiù: è oltre Cala Tramontana. Ma la vita è piena di cose fare. Le case in affitto, la salsa. Oggi ho i nipoti qui. Ci sono volte che non scendiamo a mare per settimane."

Il mare visto dal dammuso di C. non è più che un fazzoletto blu, adagiato a oriente. Mi chiedo quanto dovrebbe essere alto il tetto della casa per permettermi di vedere l'altro lato dell'isola, l'altro mare, a occidente.

Sopra la nostra testa, mentre parliamo, ciondolano grappoli di pomodori lunghi. Il piccolo Andrea segue le nostre labbra, ci osserva, ma si nasconde nella sedia a sdraio, timido. È nato e cresciuto qui, dentro il circolo frastagliato di scogli lavici che è Pantelleria.

"Si può mai lasciare Pantelleria?"

C. sospira. Ha un'età incalcolabile, il volto solcato da rughe spesse di sole e aria aperta, ma il sorriso brillante e uno sguardo luminoso, attento. Parla un italiano perfetto, colto, così scevro di impurità da far pensare che non l'abbia imparato parlando.

Mi racconta della figlia, che vive e lavora a Roma. Si è trasferita nella capitale per studiare, e poi ci è rimasta. Lei e il marito sono stati più volte a trovarla. E poi hanno viaggiato, "ovviamente". Hanno preso l'aereo più volte: è così comodo, avere un aeroporto sull'isola. Sono stati a Milano, Verona, anche Torino. Torino è una bellissima città, mi dice C., stupefatta. Già, una città in cui l'ombra delle cose non è questione di sopravvivenza, penso io.

La figlia che vive e lavora a Roma doveva sposarsi a giugno, però non ha potuto, per via del Covid.

"Dove doveva sposarsi? Sareste andati tutti a Roma?"

"Naturalmente no", sorride C. "Il suo futuro marito è portoghese ma si sposano qui, a casa, a Pantelleria."

Dunque si può lasciare l'isola, ma poi, naturalmente, ci si dovrà tornare.

M. ha studiato a Torino, nella città della nebbia. Di lei ricordo la passione per il tennis, anche se sull'isola non ho visto campi da tennis (chissà dove andava?). Ricordo gli occhi nerissimi e dolci, e quella calata mediterranea che all'epoca non conoscevo. Ricordo quella sera in cui ci cucinò il pane fritto, e tutti fummo sazi e felici.

Ci vediamo a Mueggen, nell'entroterra dietro Khamma. Guido per mezz'ora nella luce accecante del tramonto che rende tutto l'intorno indecifrabile. Suono il clacson a ogni svolta. Poi, d'improvviso, un dammuso rosa. Il solo, in mezzo al verde delle viti. Mi accoglie con il calore tipico del Sud, un abbraccio che ignora le distanze del tempo e dello spazio.

Mi racconta di sé e del territorio. Quella manica di terra in cui Mueggen si adagia è tutta coltivata a zibibbo. Me ne versa un bicchiere, con mano esperta. Le pareti del vetro si colorano di liquido perlaceo. M. me lo descrive: gli aromi, i profumi, come viene prodotto. Parla con competenza, direi con amore. La osservo ipnotizzata. Quante cose sa, penso.

"Rimani a Pantelleria tutto l'anno?", chiedo più tardi, mentre gusto il primo passito della mia vita. Nel lungo tavolo a fianco ha preso posto una comitiva rumorosa. M. fa la spola tra me e loro.

"No", mi risponde. Lavora in Toscana adesso.

"Ma d'estate torno, naturalmente." E naturalmente lavora, perché c'è bisogno di personale, di giovani, di gente del posto. Chissà che succede qui d'inverno, mi domando. Chissà che apparenza ha l'isola, spogliata della sua gioventù.

Il passito scende caldo in gola, l'alcool m'inebria leggermente. Alla tavolata rumorosa alla mia destra si unisce un uomo in abito bianco. Sorride, ha un passo leggero e felpato, i capelli grigi e una pancia appena accennata, il portamento elegante. Gli altri convitati lo acclamano, applaudono.

M. mi si avvicina all'orecchio e bisbiglia. Lui è Salvatore, quello del vino, quello di Mueggen. L'uomo che ha prodotto il nettare che ho bevuto, l'uomo che possiede tutte quelle viti, lì intorno. Il ristorante in cui siamo è di sua figlia, mi dice M. E io lo guardo, mentre all'in piedi rivolge un sorriso alla tavolata seduta, sfilandosi il cappello: un uomo che è rimasto legato alla terra, e che dal legame con la terra ha tratto vita e sostentamento.

Pantelleria è una terra di mezzo, terra d'incontri, passaggio e confine. La Tunisia dista poche centinaia di chilometri: dalla Montagna Grande, lato ovest, nelle giornate terse si scorgono le sue coste. Le facce, gli sguardi, la lingua degli uomini, sono un miscuglio di razze e appartenenze. I nomi dei luoghi sono un aspro susseguirsi di suoni inusuali: Karuscia, Kazzen, Firiciakki, Nikà. È l'arabo che ha lasciato il suo segno. Pantelleria è stata occupata dagli Arabi a partire dal IX secolo, così come altre isole, la Sicilia, Malta. Qui, però, persino il nome dell'isola tradisce l'origine d'oltremare: Bint al-riyāḥ,Pan(t)-el-eria, "l'isola del vento".

Khattibuale è, letteralmente, "la striscia del padre di Alì". È un figlio, invece, quello che si ricorda in Bonsultòn: "il figlio del sultano". E Kazzen è il "magazzino".

Sul sentiero per Benikulà ("della tribù dei Kulà") incontro un contadino: jeans larghi, scoloriti, e un sacco di patate sulla spalla, cinto con il braccio. Ha gli occhi neri e i capelli ormai grigi. Fa un cenno col mento nella mia direzione, a mo' di saluto. Poco più avanti, tre operai sono chini ad aggiustare una canalina per l'acqua: hanno capelli corvini e sguardo magnetico. Mani sulla terra e sigaretta tra le labbra, parlottano una lingua a me incomprensibile, ma quando chiedo di passare si fermano, alzano il capo e salutano vivacemente.

"Ora che è finito il locchedaun, arrivano i turisti, eh! Bisogna aggiustare, qui! Di dove siete?"

Mentre racconto di Torino, ripenso alla pelle scura dei miei alunni marocchini, egiziani. Tra gli isolani e loro, talvolta, non vedo alcuna differenza.

PARTENZA

Pantelleria sarà anche l'isola del vento, ma nelle prime ore del pomeriggio per me è impossibile uscire: mi chiudo dentro le mura fresche del dammuso e attendo che l'aria si faccia più fresca, il sole più indulgente.

Non sento C. muoversi in casa: forse riposa, forse è abituata alla calura estrema. Il riposo e la pausa sono il primo accorgimento che gli isolani suggeriscono agli stranieri, per la sopravvivenza. Penso alla vita frenetica di città, ai negozi aperti nell'ora di pranzo, agli orari continuati. Qui il sole secca la mente, qui il tempo dell'uomo è dettato dal tempo della terra. Vivere sull'isola, d'agosto, è pianificare i propri spostamenti con in mente l'ombra delle cose, l'esperienza passata dei luoghi, la presenza o meno di rocce, alberi, case contro i quali potersi difendere dai raggi implacabili.

Due luoghi soltanto hanno un potere quasi magico: trasformare il caldo in fresco, ingannare la percezione epiteliale, salvarci dal colpo di calore. Il bagno asciutto di Benikulà, una spaccatura nella roccia, una camera nella montagna, dove temperature vicine agli 80°C ricordano l'esperienza di una sauna. E il lago di Venere, uno specchio d'acqua salata adagiato sul fondo di un cratere, dove le acque calde e stagnanti di origine termale danno anche la possibilità di fare i fanghi.

Vado al lago di Venere di domenica. Scendo dalle pendici del vulcano spento, per un sentiero polveroso lungo il quale rotolano sassi friabili. In basso si stende una macchia slabbrata a forma di goccia, i cui colori cangianti e concentrici vanno dal verde al turchese. Sono ancora sul pianeta Terra? Ricordo un altrove simile eppure lontanissimo: il parco di Yellowstone, le Mammoth Hot Springs. È lo zolfo che fa il suo lavoro, disegnando una natura astratta, ipnotica.

C'è poca gente, sembrano tutti turisti. M. mi rivelerà poi: gli isolani vanno al lago di Venere nelle giornate di vento, quando il mare è troppo mosso. Non sono stata una buona isolana: quel giorno non tira un filo d'aria.

Sotto la rara ombra di un arbusto, sulla riva sud, incontro una donna bionda, sulla quarantina, il fisico asciutto e i muscoli tesi. Ha uno sguardo vispo e curioso, il nasino leggermente all'insù. Parla a voce alta con un'inflessione del nord. La incontrerò, per caso, ogni giorno della mia permanenza sull'isola, sempre in un luogo diverso. Ogni volta che ci incrociamo ci salutiamo, sorridendo. Al Lido Shuruq (shuruq in arabo vuol dire "alba", ma qui il posto è rivolto a ovest) mangiamo tavolo contro tavolo, lei pesce, io un'insalata pagata carissima. Entrambe sorseggiamo un bianco. Parliamo tutte e due con il proprietario che, inaspettatamente, è di Modena.

L'ultima volta che ci vediamo è a Pantelleria città, a una delle due pompe di benzina dell'isola. Lei e il suo compagno hanno sbagliato a fare rifornimento, hanno messo diesel invece che benzina: lui è incupito, lei si lascia andare a una risata irresistibile, apotropaica. Agita la mano nella mia direzione. Io sto correndo a prendere l'aliscafo per Trapani. Dietro di me trascino la valigia, nelle mani sudate ho le chiavi della macchina che l'autonoleggio tarda a venire a ritirare. La saluto di fretta: "Addio!"

Io lascio l'isola, lei rimane.

Ringrazio C. per l'ospitalità accogliente e M. per i sorrisi luminosi, le chiacchiere, lo zibibbo e la caponata più buona che io abbia mangiato in Sicilia.

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