Essere Walser

Tra l'XI e il XIII sec., un popolo svizzero proveniente da Goms, nel Canton Vallese, attraversò le Alpi per stanziarsi in piccoli gruppi in Liechtenstein, Austria, e Italia. Erano walliser, vallesi.

In Italia, si insediarono a raggiera intorno al Monte Rosa, la seconda cima più alta delle Alpi (4634m). Parlavano una "teuthonica lingua", un dialetto alemanno, ed erano in grado di vivere e coltivare ad altitudini e in climi in cui nessuno aveva mai vissuto prima.

Otto secoli dopo, questo popolo e la sua lingua tedesca medievale sono ancora vivi. Ma è così anche per il loro senso di appartenenza? Cosa vuol dire oggi "essere walser"? Ha ancora senso di parlare di un'identità walser?

Between 11th and 13th century, a Swiss people from Wallis Kanton left their home in Goms and crossed the Alps, scattering across Liechtenstein, Austria, and Italy. They were wallisers.

In Italy, they settled at the foot of Monte Rosa, the second highest peak in the Alps (4634m). They spoke "teuthonica lingua", a dialect of alemannic, and could thrive up in the mountains where no one had ever dared to live.

Eight centuries later, this people and their medieval German still survive. Walsers are a recognized linguistic minority under Italian law. But what about their sense of belonging? What does it mean to "be walser" nowadays? And does such a feeling as "being walser" even exist at all?

È una mattina nebbiosa di febbraio. La bruma scorre lenta giù dai monti. Poche ore fa mi sono lasciata alle spalle Torino, il confinamento, la paura del virus. Dopo mesi di ordinati reticoli cittadini, ora ho trame fitte di alberi, boschi, cime innevate intorno.

Nascosta dai traffici della Pianura Padana, la Valsesia si trova in un angolo estremo di Piemonte: adagiata alla base del corno che a nord si allunga verso la Svizzera, a nord-est di Champoluc e Gressoney in Val d'Aosta. A unire queste località, oggi, c'è un enorme comprensorio sciistico. Ma, a partire dal XIII secolo, qui si è insediato uno stesso popolo, di «gente piccola e fiera»[1], proveniente da nord: i walser (da walliser, vallesi).

Ho studiato il popolo e la lingua walser sui libri, all'università, ma non avevo mai pensato di andare a vedere in prima persona cosa e chi rimanesse di quell'antica tradizione, nei luoghi che l'hanno coltivata. Poi è arrivata l'epidemia, il suo isolamento, gli spostamenti limitati. E quando la smania di ripartire si è fatta sentire, gli occhi hanno iniziato a guardarsi intorno, alla ricerca di destinazioni vicine, e allora il ricordo dei walser, con la loro contraddizione intrinseca (piemontesi seppur tedeschi), ha scelto per me la meta: Alagna Valsesia, colonia walser.

Alagna è il «postremus pagus»[2], l'ultimo villaggio della valle. Appena sopra si erge, non vista, la parete sud del Monte Rosa, quinta maestosa di un anfiteatro naturale. Mi sembra di essere giunta alla fine del mondo, al termine di una lingua di terra che si protende verso le Alpi e sulle Alpi serpeggia e muore. Alagna è baluardo solitario ai piedi della grande muraglia. Da qualche parte, lassù, la Capanna Margherita è il rifugio più alto d'Europa, abbarbicato sulla roccia a quota 4554 slm.

Mentre mi avvicino al cuore del paese, dalla foschia emergono e poi scompaiono geometrie perfette: triangoli di tetti spioventi, colore del legno scuro, con balconate recinte da pertiche orizzontali, poste a intervalli regolari. Sono le case dei walser. Intorno, il bianco opaco della nebbia rivaleggia in purezza con il bianco della neve che nasconde i campi, forza la resistenza degli steli d'erba, piega i rami. Fuori, la temperatura è gelida. Vicino all'unica pompa di benzina del paese pascolano infreddoliti dei cavalli, chiazze di marrone peloso sulla distesa candida.

Parcheggio in Piazza degli Alberghi e scendo. C'è poca gente in giro, e un silenzio fitto. Lo sguardo si sofferma sulle sagome aguzze degli abbaini di un palazzo che ospita, al riparo dei portici, un negozio di abbigliamento sportivo, il panettiere, la farmacia. Dirimpetto, altrettanto acuta è la vetta del campanile in pietra, sormontata da un'esile croce. Sulla facciata in pietra, l'orologio segna l'una passata. Il paese sonnecchia, immerso in un silenzio di sonno.

Sono qui per scoprire cosa è rimasto dei walser. Ha ancora senso, oggi, parlare di un'identità walser, dire "io sono walser"?


La prima persona con cui parlo è Lorena, dell'Ufficio Turistico. Ha la ritrosia spontanea, calda, della gente di montagna. Io non sono ancora (o forse più) abituata all'ospitalità di chi vive fuori città. La guardo, cerco di indovinarne i lineamenti al di sotto della mascherina. Mi sento goffa lì nel mio giaccone, dico cose che forse non sono domande.

«C'è ancora qualcuno che parla titschu?», chiedo appena ne ho occasione.

Il titschu è la lingua dei walser. Vuol dire tedesco, nella stessa lingua tedesca, nel dialetto locale.

Lorena scrolla le spalle. «I walser», mi risponde. Per la prima volta sento nominare questo mitico nome da qualcuno del posto. Ma non mi ha detto «noi», non mi ha detto «noi, i walser». E così rimango nella mia incertezza, a domandarmi dove siano, questi walser.

Mi spiega che la sua famiglia viene per metà dalla Val d'Aosta: suo nonno attraverso il Colle di Loo era andato a fare il falegname a Gressoney, e lì aveva conosciuto sua nonna. Perché una volta ci si spostava non soltanto verso la pianura, ma anche tra valli parallele, sempre a piedi, grazie ai valichi. Migrazioni di uomini in cerca di lavoro, del resto, hanno caratterizzato tutta la storia dell'alta Valsesia: a partire dal XVIII secolo, la popolazione di Alagna si ingrossò di gente venuta da lontano per lavorare in miniera, dalla Sardegna addirittura. Ma gli «stranieri» avevano un nome tutto per loro: venivano chiamati wailsch o welsch, cioè «non walser». E gli alagnesi di origine walser non amavano, per consuetudine, contrarre matrimonio con un wailsch.

Il telefono squilla senza tregua. Lorena risponde con tono pacato, paziente: sono i turisti disperati che cercano chiarezza sulla riapertura degli impianti. Un paese come Alagna, oggi, vive soprattutto di turismo, e i rimpalli dei vari DPCM hanno lasciato un'economia ferita e sofferente. Gli sciatori del weekend salgono da Milano con il macchinone. «Ma ce n'è bisogno», mi dice la lattaia, che tiene aperto il negozio a Pedelegno e intanto ha le mucche negli alpeggi che fanno il latte. «A chi lo vendo il formaggio altrimenti?»

Da un bar sotto un porticato, di fianco alla Chiesa, esce una musica debole. La porta a vetri è tappezzata di adesivi; i cartelli, fuori, promettono «miacce». Le miacce sono crepes sottilissime, originariamente di farina di miglio, condite con burro e sale oppure farcite con lardo, formaggi, verdure. Mi rintano dentro. Anche qui c'è poca gente. Le cameriere - tutte donne, e giovani - chiocciano intorno al bancone, poco indaffarate. Ai piedi hanno scarponi da montagna, indossano abbigliamento tecnico e da sotto i tessuti tesi si scorgono muscolature allenate. Chiacchierano di ragazzi, di una festa che c'è stata lo scorso weekend, ogni tanto abbassano il tono e bisbigliano di fidanzati e storie d'amore. Le loro guance arrossiscono. Mentre le osservo mangio, bevo succo di mela fumante. Il burro fuso tracima e mi cola per le dita, alzo in alto la miaccia e con la lingua lo recupero prima che cada. D'improvviso ecco, nella penombra del locale, il ricordo di un'infanzia semplice, contadina: mia nonna che annegava gli gnocchi in colate di burro annerito, quasi bruciato.


In Municipio mi aspetta la responsabile dello Sportello Walser. O forse non mi aspetta? Non ne sono più così sicura, mentre scendo per la provinciale ghiacciata, mentre attraverso Zar Chilchu e poi Pedelegno deserte. In fondo è sabato. È da ieri che nevica. Davanti all'edificio del Comune si è depositato già un buon volume di fioca, e altra ne viene giù dal cielo, sfarfallante nel vento tagliente. Suono un campanello senza sapere bene a chi ho suonato. Aspetto e temo che in realtà non ci sia nessuno dentro. Ma poi sento i passi di qualcuno che si avvicina. La porta si spalanca su Paola Borla, gli occhi mobili e vispi sormontati da ricci scuri, le scarpe tecniche appena bagnate da un rimasuglio di neve sciolta. Mi fa strada fino al suo ufficio, dove deposito il giubbotto pieno di freddo e mi siedo a godermi il calore della stufa.

Parla rapidamente, con una lieve zeppola, guarda nel vuoto come se nel vuoto leggesse tutte le informazioni che possiede sui walser, come ripetendo una storia consueta, riguardo a cui molti altri le hanno domandato. Agita le mani nell'aria, quasi dovesse ricreare, plasmandoli, figure e personaggi di un tempo che fu.

«Nel 1255 a Orta San Giulio hanno chiesto ai monaci di prendere in affitto un mulino». Il soggetto sono sempre loro: i walser, i primi walser, i coloni. Ma io voglio sapere di adesso: è l'ora che mi interessa, la Storia non è che la matrice radicale del presente, cosa rimane oggi di ieri?

«Il titschu non si parla più», scuote la testa Paola. I giovani, i cinquantenni e i sessantenni ormai non lo sanno più. Solo gli anziani lo parlano un po'. Ma sono rimasti in pochi, e spesso anche loro preferiscono l'italiano o il piemontese valsesiano.

«Prendi Pierino. Oggi ha 81 anni, ma la moglie non era di origine walser. Quanto ai figli: si sa, prendono dalla mamma.»

Sono rimasti dei modi di dire, delle formule comuni: delle «battute», dice Paola.

«Sono andato nello spicher a prendere la Nutella», fa il verso a un bambino, ridendo.

Rimane però anche l'appartenenza dichiarata. «Anche se non parlano titschu, ancora oggi questi anziani diranno che "sono di discendenza walser"».

Ma dire di appartenere equivale a essere?, mi chiedo.

Penso alla mia storia, all'intreccio di lingua e appartenenza geografica, al contributo che l'uno o l'altro dato possono dare alla costruzione di un'identità. Sono, io, un essere geolinguisticamente riferito? Sono nata in Liguria e ho detto spesso di essere ligure, nonostante io non parli una parola di ligure, nonostante non abbia vissuto mai, se non d'estate, in Liguria. Parlo invece con orgoglio il piemontese, un piemontese preciso, di Saluzzo. La lingua che mia nonna, nata e cresciuta alla Peretia di Saluzzo, parlava quando ero piccola. La lingua di casa.

«Anche io sono un pezzetto walser», confessa alla fine Paola.

Aspettavo questo momento. La guardo, forse, con occhi diversi? Lei si interrompe, scrolla le spalle. Non mi racconta di sé, della sua storia. «Ho sempre pensato che fosse una cosa, una cultura, legata alla montagna», mi dice invece.

Una cosa. Una cultura. Legata alla montagna. Non è forse questo, in fin dei conti, quello che siamo? Il legame con l'ambiens che ci sta intorno? La relazione tra ciò che è dentro di noi e ciò che è fuori di noi?

«Devi capire» mi sorride Paola «che pur di vivere qui la gente si fa 20 km all'andata e 20 km al ritorno solo per portare i bambini alla materna, a Varallo».

Fuori dalla finestra il profilo tagliente del versante nord della valle mi ricorda che, lì, la montagna è ovunque. Penso alla lattaia e alle sue mucche, alle cameriere con gli scarponi ai piedi, alla madre che per portare la figlia all'asilo guida 40 km al giorno. La montagna è l'abbraccio che tutto circonda. Stritola, a volte.

I walser furono la prima popolazione d'alta quota. Si insediarono là dove nessuno si era azzardato a vivere. Dissodarono terreni vergini, fino a quel momento intoccati. Prima di loro, gli italiani utilizzavano le terre alte esclusivamente come alpeggi estivi.

Misero a dimora la segale, un cereale meno pregiato del grano ma nutriente, semplice da coltivare anche su terreni poveri. Basarono la loro sussistenza sulla segale, sulla canapa e sulla patata. Impararono a resistere in climi proibitivi. La storia architettonica della casa walser ce lo spiega. Le abitazioni tipiche in legno non hanno sempre avuto l'aspetto con cui la conosciamo oggi: le pertiche furono aggiunte dopo la fine del periodo di optimum climatico medievale, quando la cosiddetta Piccola Glaciazione provocò un'avanzata dei ghiacciai e un abbassamento delle temperature, con conseguente aumento delle precipitazioni, nevose d'inverno e piovose in primavera. Per il fieno che rimaneva bagnato, le pertiche svolgevano l'importante funzione di essiccatoi.

I walser si adattarono insomma a una vita difficile in luoghi remoti, trasformandola in modello di vita e civiltà montana. Erano «gente da ammirare», pieni d'amore per le terre lavorate dal proprio sudore, rispettosi del paesaggio circonstante. Lo sfruttamento del territorio fu sempre essenziale, limitato da accordi, adeguato alla misura dei piccoli Dorf, villaggi alpini. [3]


Nell'ufficio di Paola Borla incontro Paola Leonoris, una signora come piacerebbe a mia mamma: elegante nel suo piumino sgargiante, i capelli color del sole, e sulla pelle dieci anni di meno di quelli che ha effettivamente. È un fiume in piena quando parla della scuola, delle iniziative che per anni ha portato avanti per promuovere la cultura walser. Brandisce l'ombrello chiuso come una spada, mentre la voce tradisce un accento straniero: anche lei, come molti altri nuovi alagnesi - viene da Milano. Prima di andare in pensione, Paola organizzava laboratori di titschu a scuola, con manuali su misura per i bambini. Ma ora che lei non c'è più, non c'è più nulla.

D'altronde, mi spiega la maestra Leonoris, fino agli anni '70 non si sapeva di essere walser.

«Si chiedeva: sei tedesco? E si rispondeva: no, sono italiano che parla tedesco».

Poi sono state raccolte testimonianze, sono state effettuate registrazioni, sono stati pubblicati testi. Nei primi anni '70, è nata la «questione walser» e, al contempo, si è cominciato a tutelare la lingua, in quanto lingua di minoranza. I linguisti hanno compilato il Piccolo Atlante dei Walser Meridionali e curato il progetto Archiwals. Nel 2008 è uscito, a cura di Sergio Maria Gilardino, il volume I walser e la loro lingua, che include il monumentale Dizionario della lingua walser di Alagna Valsesia.

Ma il linguaggio vivo, mi chiedo, sta nei dizionari? Negli articoli scientifici? Una lingua non vive forse all'asilo o tra i banchi minuscoli delle prime classi della scuola elementare? La Sesia scorre vociante verso valle, e così sembra che scorrano le nuove generazioni, lontano dalle antiche tradizioni, proiettati verso un futuro globale, digitale. Più universalistico, forse, ma col rischio di appiattire il ricco patrimonio di diversità locali.

«Parlare inglese è importante al giorno d'oggi», mi dice Paola. «Ma imparare la lingua storica della comunità in cui si vive lo è altrettanto».

Annuisco, sono convinta. Ma si capisce che è una finta: i vantaggi del parlare titschu non sono immediatamente chiari né a me né a lei. Il bilinguismo è uno di questi, sicuramente: rende il cervello più plastico, pronto ad apprendere altre lingue. Ma quale altre funzioni svolge il titschu, oggi, nella società alagnese? Quali spazi abita? Quali ruoli ricopre?

A cosa serve una lingua, se non ho con chi parlarla?

L'albergo dove alloggio si trova a Pedemonte, una frazione alta del Comune di Alagna. Percorro a piedi il sentiero che dal ponte Z'am Steg conduce al centro del borgo. Dopo pochi metri ho già il fiatone. La neve è fresca, alta. Il diafano paesaggio mi barcolla intorno mentre affondo e sollevo a fatica gli scarponi. Dai costoni selvosi delle montagne emerge a tratti, argentea, la pietra. Tra le fronde scorgo rari terrazzamenti, segni del faticoso lavoro che l'uomo, qui, ha operato sulla natura.

Pedemonte è il vecchio Pè de Mud, il "piede" (terra a valle) dell'alpeggio Mud (da motis o Monti). Il primo documento scritto relativo ai walser, in Valsesia, risalente al 22 luglio 1302, attesta di un tal «Anrigetus Ursus, alamannus de Pè de Moyt», che qui costituì la dote per sua figlia. [4] Tra le viuzze strette del borgo si stringono le une alle altre le tipiche case walser con le balconate a graticci. I tetti si incastrano gli uni sotto agli altri in modo da garantire, agli uomini, passaggi sgombri da ghiaccio e neve. La fontana è ancora oggi il centro aggregante del villaggio. Sulla piazzetta ha sede il Museo Walser.


Donata mi aspetta sotto il portico, al riparo dai ghiaccioli che pendono dai balconi. È magra e slanciata, come a volte le persone di montagna sanno essere: asciutte ed essenziali, simili a fuscelli resistenti alle intemperie. Un k-way imbottito la ripara dal freddo glaciale, ma non ha sciarpa né cappello: i capelli rossicci, liberi, si confondono con il colore del legno retrostante. Con gli occhi verdi fissi nei miei racconta la storia di quel luogo, ed è un racconto flebile, gentile, appassionato.

Il Museo è una casa walser, risalente al 1628, che si sviluppa su tre piani. Al piano terra ci sono le stalle, la cucina e la stube, il piccolo salotto dove si trascorrevano le sere a filare, scaldandosi con il fiato degli animali. Al primo piano, invece, trova posto la camera da letto: l'alcova è incassata nel muro di legno e perpendicolare alla stalla sottostante, l'ambiente più caldo. Sotto il tetto coperto da piode, l'ultimo piano è adibito a fienile. C'è anche lo spicher, dove veniva riposto il pane: si faceva una volta all'anno, poi lo si tagliava con un lungo coltello (la schmida) e lo si distribuiva. Sacchi di cereali contengono segale, canapa, orzo, miglio.

Le stanze della casa sono piccole, dal soffitto basso. Si entra sempre dalla lobbia, non ci sono passaggi interni. Alcune di esse custodiscono un tesoro di oggetti di uso quotidiano: attrezzi per lavorare il legno, giocattoli, strumenti per filare. I puncetti esibiti al di là delle teche mi meravigliano: sono pizzi intessuti di centinaia di nodi minuscoli, invisibili. Adornano i vestiti delle signore, oppure sono tovagliette o centrini.

Alcuni dei quadri in mostra, di uomini e donne walser del passato, provengono dalla stessa famiglia di Donata, e lei sembra andarne fiera: «Le riproduzioni pittoriche sono importantissime. Servono da fonti per poter ricostruire gli abiti, quelli che oggi usiamo per le manifestazioni in costume».

Scopro che ad Alagna è attivo un gruppo folkloristico, Die Walser Im Land, che studia ed esegue un ricco repertorio di canti e balli tradizionali in titschu. Anche Donata conosce il titschu? Lei abbassa la testa e strizza gli occhi: no, figurarsi, lei non sa più parlare. E pensare che sua mamma, che era andata a scuola sei anni, non parlava nemmeno valsesiano!

Poi, però, quasi a volersi smentire, quasi a volersi provare, pronuncia con orgoglio le parole incise sulle sponde di una vecchia culla:

Mein Harz ist dir auf geben und ist nit mer main
Mein Harz hat sich on dich ergeben wolten ich alzeit bi dir sein

Il mio cuore è stato donato a te; non è più mio;
Il mio cuore si è affidato a te, si è voluto affidare a te e così in ogni momento sono vicino a te. [5]


La sera in albergo mi lascio andare a un Gattinara caldo, scuro. La visita al museo mi ha gelato le ossa. Per l'ultima mezz'ora ho ascoltato Donata senza prestarle realmente attenzione, con la mente altrove, ai pollici sempre più duri dei piedi, alle mani tremanti. Non riuscivo a pensare ad altro che al mio corpo. Appena ha finito di raccontare, sono fuggita, gli scarponi duri sul ghiaccio, le gambe anchilosate. Mi deve avere ritenuta scontrosa, ma avevo solo freddo. Due ore in una casa di legno, senza riscaldamento, e già avevo raggiunto il limite di sopportazione.

La panissa fumante mi scalda. Non è farinata fritta, come quella che si mangerebbe in Liguria, ma un risotto liquido, tipico del vercellese. Fuori la neve continua a fioccare, incessante.

Quanto seducente, penso, deve essere includersi in un gruppo ritenuto isolato, riservato. La rivendicazione di un noi tramite cui affermare la propria identità è il canto delle sirene. Io è solo, ma noi è un gruppo, sono i miei simili, siamo la forza. Quanto può contare, poi, che io sia io e tu sia tu, che abbiamo vissuto in realtà percorsi non sovrapponibili? La mia storia ha i suoi demoni e la tua storia ha i suoi demoni, però siamo tutti ancora sempre nipoti della stessa cosa - la Terra, l'Origine, la Natura, l'Evoluzione.

D'un tratto mi accorgo che, dalle pareti lignee della sala da pranzo, facce di antichi abitanti mi scrutano. Strizzo gli occhi: è una marea di piccoli uomini, donne e bambini quella che ha invaso l'obiettivo. Sono muniti di strumenti da lavoro, disposti a balze sul fianco della montagna, vestiti con l'abito buono. Chiamo la proprietaria dell'albergo.

«Sono i walser», mi risponde senza tentennamenti.

«Sono loro che un secolo fa hanno costruito questo albergo».

La domenica mattina parto di buon'ora per salire a Otro. Non ci sono strade carrozzabili, ma solo sentieri: scelgo quello più praticato, per non rischiare la neve non battuta. Mi ritrovo in mezzo a una carovana di turisti che, con o senza ciaspole, sale per la mia stessa meta. Mi infilo, mi unisco: alla fine marciamo compatti; soltanto quando i tornanti si fanno più stretti il gruppo si sfilaccia e qualcuno rimane indietro. Lenti ma inesorabili ascendiamo in mezzo al bosco di conifere.

Superiamo Tocks chapulti, Staffe chapulti: cappellette messe a veglia dei camminatori. «Non profanare questi muri con iscrizioni», ammonisce una scritta.

All'ultima curva, già all'aperto, si spalanca la meraviglia: un ampio pianoro spalmato di neve, luccicante nel generoso sole del mezzogiorno e punteggiato di piccole baite marroni. Dalla lobbia di una di queste pende un'antenna satellitare, e un uomo si sporge, parlando al telefono e aspirando lunghe boccate dalla sigaretta. Qualcuno vive qui?, mi stupisco.

Otro è un antico alpeggio e insediamento walser, risalente al XIII secolo. Adagiato su un altipiano a quasi 1700m, tra la Val Vogna e la Val d'Olen, dimora in un silenzio perenne. Intorno non c'è nulla di umano, a parte noi, camminatori della domenica, le case sole, vuote, e qualche raro abitante. La vetta del monte Tagliaferro si staglia dritta in lontananza. Sul versante opposto fa da sfondo una trama fitta di boschi, bianchi e verdi.

Camminiamo fino a Pian Misura, dove lo sguardo si perde nel vuoto, incrocia altri alpeggi, si dilegua sul mosaico astratto delle pareti di roccia alpine. Mi sfrecciano cani accanto, sulla neve sprofondano piccole impronte di animali che non conosco: selvatici.

In alto, il volo assoluto delle aquile.


A casa di Paola Gilardone due gatti sonnecchiano raggomitolati di fianco alla stufa. È domenica pomeriggio, il tempo della quiete. Il fuoco crepita silenzioso di là dal vetro, la televisione accesa trasmette un documentario in bianco e nero su Mussolini.

«Stavo finendo un cuscino per una cliente», mi accoglie Paola, con tono scoppiettante. E subito mi mostra l'involucro di canapa, già gonfio di lana, i primi punti cuciti a una delle estremità.

La tavole è imbandita di fili, conocchie, attrezzi per cucire.

Sono qui per sapere della canapa. Da qualche anno Paola è diventata la custode di un'antica tradizione locale: la produzione, tutta artigianale, degli scapin. Gli scapin sono calzature tipiche, di origine walser (ma a Rimella si chiamano "scoffoni"), con la tomaia e la suola interamente in lana, tenute insieme da sottili corde di canapa.

«In paese passo per quella che pianta la canapa», ride Paola.

Ha imparato da Pierino. Semina a fine maggio, nella settimana che va dall'Ascensione alla Pentecoste. «Cresci alta, cresci alta!», si era soliti augurare alla pianta, lanciando l'ultima manciata di semi in alto.

I maschi si raccolgono ad agosto, le femmine tra settembre e ottobre. Si fanno seccare e si puliscono i fusti, denudando le fibre tessili, poi si mettono a macerare per ventuno giorni nei bori (pozze d'acqua), sperando che prendano il gelo. Infine si lasciano scolare e si ripongono nel solaio. D'inverno la fibra più fine viene separata, pettinata e preparata per il lavoro di tessitura. Fè trai significa "fare corde", cioè intrecciare fili di canapa in sottili ma robuste corde, ed è l'operazione essenziale per la produzione di scapin.

Ogni scapin è intessuto con una sola, lunghissima, corda di canapa. Una volta imbastita la suola di pezze di lana sovrapposte, con la lesna (punteruolo) si buca il tessuto sul bordo, e con il quarel (ago grosso) si fa passare la corda di canapa. Si ripete l'operazione a un centimetro di distanza, con un altro buco, e si continua: prima lungo tutto il perimetro, poi, per cerchi concentrici, all'interno. Il risultato è una suola irrobustita, la lana compressa, costellata di piccoli lacci, attraversata più volte dalla stessa corda. Infine si unisce la tomaia, prestando attenzione a modellare la mascherina e la punta secondo la forma leggermente allungata della suola.

«Mia nonna era di Riva Valdobbia, non c'entrava nulla coi titschi».

Ricorda la regola secondo cui i walser non potevano sposarsi con i wailsch, e dunque non si mischiavano con i paesi vicini, ma rimanevano chiusi in se stessi, nella propria discendenza.

«Secondo me una causa dell'estinzione dei walser è anche questa», riflette. «L'autoisolamento. E il fatto che si sposavano solo tra di loro».

Ma come può parlare di estinzione, lei, che più di tutti gli alagnesi che ho incontrato insiste a ingemmare la propria lingua di parole in titschu?

«Frequento il corso con Davide», mi dice orgogliosa. «Studio su un libro che si intitola Walser Sproch Brousme: briciole di lingua walser. E poi quando faccio qualche cosa, penso sempre a come potrei dirlo in titschu».

Strizzo gli occhi e noto che, su uno sgabello, è attaccato un post-it: stuhl; su una porta dietro al tavolo ce n'è un altro: tìr; sul tavolo è scritto: tìsch.

«Da quando mi sono messa a studiare, ho capito che mia nonna parlava sì dialetto valsesiano, ma una parola su dieci la diceva in titschu».

Fuori è calato un buio azzurrino, luccicante di neve gelata. Guardo l'ora: devo sbrigarmi, in hotel la cena è servita soltanto dalle sette alle otto. Mi alzo bruscamente, saluto Paola, lei forse vorrebbe ancora parlare. Mi accompagna al cancello e, mentre sono già lontano, mi rivolge le ultime parole. Unisce il pollice e l'indice, muove il polso su e giù, e, perentoria, intima:

«Ich machu socka». Io faccio scapin.

È mezzogiorno. Le campane rintoccano nell'aria sorda, e sono l'unico suono. Sporgendomi dai tornanti della carrozzabile, scatto fotografie al paese arroccato sulla collina. Il campanile svetta, ribelle, non riesco a coglierlo intero. Passa una donna preceduta da un cane, indossa un pastrano nero, lungo, gira il collo, mi guarda a lungo. Il sole immobile scontorna montagne mute. D'un tratto romba il motore di un camion: ronza, s'avvicina, poi s'affievolisce e tace. Sulla cresta di un pendio, in lontananza, sono adagiate quattro, cinque, otto case in una mezzaluna di neve: come si farà ad arrivare lassù?

Sono a Rimella, frazione Chiesa (Zar Chiljchu). Alla frazione Grondo (Grund), poco più in basso, ho dovuto chiedere indicazioni a una signora: «È qua Rimella? Cerco Paola!»

Lei subito mi aveva notata - la macchina estranea, l'orario inconsueto - e si era affacciata al balcone. Sorride, quasi senza denti:

«Ancora in su!», mi fa cenno, menando in aria il polso.

Remmalju mi pareva vicina. In linea d'aria, dista da Alagna poche decine di chilometri. E, del resto, è stata fondata prima di Alagna, dagli alemanni provenienti dal Canton Vallese. Ma la Valmastallone è un piccolo canyon nostrano, una lunga mezz'ora di tornanti e gorge. Ho guidato sulla strada sconnessa, erosa a tratti, senza incontrare quasi nessuno. Rimella è la colonia walser più antica della Valsesia e, forse proprio per questo, è un borgo isolatissimo, in cima a una delle due teste in cui si biforca la valle. Gli edifici qui non sono in legno, ma in pietra.

Il camion che prima ha rotto il silenzio ora è fermo di fronte a un maestoso edificio che reca la targa "Monte Capio Bar Alimentari". Tutto pare chiuso, ma da una porticina laterale escono un uomo e una donna. Lui scende le scale, piegato sotto il peso di una bombola per l'ossigeno. Lei, maglia rossa e capelli argentei, resta ferma e, dalla cima della scalinata in pietra, mi segue con lo sguardo.

«Goten tog!», urlo, sbandierando la mano aperta.

«Gjöte tag», mi corregge. «Ma qui si dice meglio hurteg. È venuta a fare ricerche sui walser?»

Solo più tardi scoprirò che lei è Piera, storica promotrice e profonda conoscitrice della storia e della cultura dei walser di Rimella.

«Solo la Piera sa leggere il titschu».

Attraverso di lei vive quell'antica lingua di tradizione orale e attraverso di lei scorre, dal passato al presente, dal popolo dei parlanti alla schiera degli studiosi che, a partire dagli anni '70, spesso l'hanno consultata come informatrice o intermediaria.

Franca e Renata sono le sorelle che gestiscono l'Albergo Fontana, l'unico ristorante che trovo aperto. Entro da una porta anonima in una viuzza del centro e mi accoglie la penombra di una sala allestita con tavoli distanziati e tovaglie a quadretti bianchi e rossi.

«Hurteg!», saluto.

Alle pareti, nell'angolo più buio della stanza, sono inquadrate fotografie in bianco e nero di vecchi gruppi di leva. Strizzo gli occhi per percorrerne le facce, indovinarne negli occhi i pensieri, domandarne le ambizioni. So che, durante il Regno d'Italia, a Rimella ci fu un grado elevatissimo di alfabetizzazione. Ma chissà com'era crescere e vivere lontano da tutto, qui, tra le cime dei monti? I giovani non desideravano andarsene?

Franca si sfrega le mani, stringendosi tra le spalle. «Non l'aspettavamo», mi dice imbarazzata. «Non so cosa posso farle».

La rassicuro: un piatto semplice che ha a disposizione andrà benissimo. Sono fortunata, mi dice: di solito in questo periodo sono chiusi, ma oggi in Comune sono venuti due tecnici da Borgosesia e il ristorante ha aperto per loro. Torna pochi minuti più tardi con un piatto fumante di risotto ai funghi e uno di polenta. Divoro tutto. Mi scolo una mezza caraffa di vino. Tutto quel burro punteggiato di nero mi ricorda, ancora una volta, mia nonna. Persino i bicchieri sono gli stessi che usava lei.

La situazione sociolinguistica, a Rimella, è diversa. La popolazione è di poche centinaia di abitanti, perlopiù anziani. Nell'isolamento, la lingua dei walser si è conservata meglio, e mantiene una certa vitalità.

«Noi in casa non la parliamo», dice Franca. «Ma i miei genitori sì, loro comunicano in titschu».

E Renata spiega: «I miei coscritti del '57 si ricordano che, se dicevamo una parola in titschu a scuola, prendevamo uno schiaffo».

Il tedesco di Rimella ha una particolarità: a differenza di altre colonie, non ebbe mai contatti con la madrepatria, perciò alcune parole non seguirono l'evoluzione della madrelingua d'Oltralpe. Pioggia, per esempio, si dice ancora oggi watter (acqua, cfr. ingl Water, ted. Wasser), e non regen, come in alagnese o nell'odierno tedesco. Altra distinzione che è rimasta viva a Rimella ma si è perduta nelle altre comunità walser è quella tra hus (cfr. ingl. house, ted. Haus), ovvero la casa fisica, e hemu (cf. ingl. home, ted. Heim), la casa del cuore.

L'ultimo a frequentare a scuola in paese è stato il figlio di Franca, nel 1995. Ora i bambini sono tre, ma solo da quest'anno: a settembre si è trasferita una famiglia messicana, bisognerà vedere se superano l'inverno. Il clima, qui, è durissimo. Io mi figuro nella mente un atlante, e traccio con l'immaginazione il tragitto che dal vasto Messico del nahuatl porta alla minuscola Rimella del titschu.

Franca sorride. «Però è molto bello, sa».

«L'inverno. Perché fa anche paura, sentire i torrenti cantare e i massi rotolare. È bello e spaventoso al tempo stesso».

Bello e spaventoso vivere isolati in cima a una valle, tra le forze potenti della natura. La mia umanità definita dalle pietre che costruiscono il mio spazio urbano. Il perimetro dell'uomo tracciato dal confine dell'abitato, nucleo policentrico di frazioni collegate da sentieri. E oltre? Ci si riconosce, per diversità, umani nel vedersi delimitati dal bosco, regno del misterioso e del selvatico, che pure, poi, si addomestica e sfrutta.

Sono spesso all'inseguimento di un simile contatto con il selvaggio. Ne invidio l'esperienza, e la ricerco. Mi domando: come sarebbe la vita in un borgo remoto, al limitare del regno intonso della montagna? Puramente selvoso o puramente bianco, ciò che mi sta d'intorno: e io nel grigio, a tentare una sintesi.

«Nando tutt'ora lavora nel bosco», mi indica Renata, puntando l'avventore che è appena entrato. Curvo, mal vestito, la faccia lunga bruciata dal sole. Mastica uno stuzzicadenti. Si abbandona su una sedia e ordina un quartino di rosso. Parla con un altro, e la lingua che scorre veloce tra le loro bocche non è italiano e non è piemontese.

Ogni comunità walser si era specializzata in qualcosa. I rimellesi erano bravi muratori, tant'è che ancora oggi vengono chiamati per fare tetti in piode (lose di pietra). Gli uomini emigravano in Francia e Svizzera, dove costruivano case in pietra, e a casa il grosso della fatica pesava sulle donne. A luglio andavano a falciare l'erba nei campi, mentre ad agosto era la volta dei prati magri, i prati più impensabili, più poveri e impraticabili: ogni ciuffo era importante, in vista dell'inverno. In chiesa modellavano croci di cera benedetta e le portavano alle chapulti sparse in giro per la montagna.

Ci raggiunge Paola Borla. Ero venuta per lei. Nel buio ormai incipiente della sera, mi racconta di quando si è trasferita a Rimella: anche lei non è sempre vissuta lì, poi c'è stato nella sua vita un momento di rivelazione e ha lasciato la pianura per la Valmastallone. La prima notte che ha dormito in paese non conosceva nessuno. Diluviava, era arrivata tardi e non si era portata nulla da mangiare. Rischiava la fame e il freddo. Dopo mezz'ora ha sentito il campanello suonare: era la Piera, con una pentola fumante in mano: «Volevi mica che ti lasciassimo senza cibo!»

Renata sparisce dietro la cucina e riemerge qualche minuto più tardi con uno spesso album fotografico. Ci mostra le foto dell'ultimo Walsertreffen, il grande raduno di tutti i walser dell'arco alpino, che si è tenuto ad Alagna nel 2007. Riconosco Piera, di quasi quindici anni più giovane, fasciata in un abito nero e viola, decorato con puncetti bianchi sul petto. Sorride, sembra trattenere a stento l'entusiasmo.

A lungo mi sono chiesta cosa significhi identità, in una minoranza linguistica o altrove. Guardando l'immagine di Piera, felice in abiti walser, identità mi pare una corrispondenza: la perfetta sovrapposizione tra ciò che si desidera e ciò si è.

Essere o non essere significa, nei gruppi umani, appartenere o non appartenere. C'è chi sta dentro, è parte, e allora è incluso, e chi sta fuori, in disparte, ed è escluso. Invisibili linee corrono in mezzo a noi, a separarci oppure unirci. Essere da una parte o dall'altra del confine è questione di sorte, di Storia forse, delle storie dei nostri avi, delle nostre stesse; nel più fortunato dei casi, di scelta.

«Franca, Renata», chiamo. Paola avverte la mia curiosità, mi incoraggia.

«Ma voi, lo sentite, l'orgoglio dell'appartenenza? Vi sentite walser

Silenzio. Si guardano. Renata mi lancia un'occhiata perplessa, poi prova a ragionare.

«I walser vengono dal Vallese», argomenta. «E i nostri antenati venivano dal Vallese». Punta l'indice di una mano contro il palmo dell'altra. «Noi apparteniamo all'etnia walser», prosegue. «E dunque siamo walser

Non fa una piega. Rido, di una risata liberatoria. È tutto ciò di cui avevo bisogno. Quel dunque cartesiano mi convince. Dunque sono walser! Eccoli qui, i walser, anzi eccole, le donne walser di cui tanto ero in cerca.

Prima che fuggissi gelata dal Museo di Pedemonte, nel mezzogiorno del sabato Donata mi ha suggerito che "essere walser", oggi, non significhi tanto condividere tratti etnici, culturali, genetici oppure linguistici ben definiti, quanto sentire, appunto, l'orgoglio dell'appartenenza. Finché sarà vivo l'orgoglio di far parte di una comunità alpina, fondata al di qua delle Alpi da coloni provenienti dal Vallese, allora avrà senso parlare di un'"identità walser". Allora non servirà più il titschu, ma nemmeno basterà avere case con le lobbie a graticcio.

Quello che si spera, oggi, in luoghi come Alagna o Rimella, è «non tanto che i bambini ricomincino a parlare titschu, ma che in uno su dieci nasca proprio quell'orgoglio di appartenenza», mi ha detto Paola Leonoris.

«È il senso dell'appartenenza alla comunità», ha proseguito. Precisando: «La comunità alpina».

Ed è quello che intendeva anche Paola Borla: la cosa, la cultura della montagna.

Forse, allora, la chiave dell'identità walser è nelle sue radici alpine. Radici forti e sottili come un filo di canapa. È il rimanere attaccati a un paese anche quando la vita si fa difficile. È la perfetta corrispondenza tra uomo e montagna, tra persona e luogo.

Ci ritroviamo ad Alagna, a Zar Chilcu, sopraffatti da un sole sgargiante. Voglio ringraziare tutti della calorosa ospitalità: facciamo un circolo, per rimanere a distanza, chiacchieriamo, ci salutiamo. C'è anche Massimo Stainer, figlio di Emilio, walser da generazioni.

Intorno, la neve sta iniziando a sciogliersi. I tetti ancora coperti ora piovono gocce d'acqua, rivoli sottili già scorrono per le vie del paese. Dal vicolo tra il cimitero e la chiesa sbuca una donna. Cammina lentamente, si appoggia a un bastone. Ha la chioma bianca come la neve, un capillare rotto in un occhio.

«Oh, la 'Mbria!», esclama Donata.

La Maria, venuta di lontano, è rimasta chiusa in casa per mesi per via della pandemia. Non ha visto nessuno, non ha parlato con nessuno. Ora va verso la bottega, sola. Mi incammino con lei, giù per Via dei Walser. Mentre le nostre ombre si allungano davanti ai nostri piedi, mi ritorna in mente una domanda che mi sono posta nei giorni passati: A cosa serve una lingua se non ho con chi parlarla? E allora, con la naturalezza della neve sciolta che ci scorre sotto i piedi, chiedo:

«'Mbria, come si dice "come stai"?»
«Wétte schtaischt?»
«'Mbria, come si dice "dove vai"?»
«Wo gaischt
«Allora andiamo, 'Mbria?»
«Nos gangiwer
«Io vado, tu resti. Buona giornata, 'Mbria.»
«Gote tog, si dice».
«E grazie si dice...»
«... goddanke!»

Nìsch hét brelt: «Ìch pì d Méjà, ìch pi chomut vànnu vàr,
dà ìŝch der heljge töt! Schtennet vàr vànnu miér!
Ìch gà n üf en dets bàlmelte und schtànech dan üf vàr viér vàrt zìn tàgà.
Tjéget mer trà z àssu du m
örgund.»

Allora gridò: «Io sono la Maria, sono venuta di lontano,
dove c'è la morte sacra! State lontano da me.
Io vado su in quella balmetta e starò lassù quaranta giorni, starò lassù.
Portatemi da mangiare al mattino». [6]


FONTI

[1] AA.VV., Alagna Valsesia. Una comunità walser, p. 21.
[2] Bescapè, Novaria Sacra, pag. 147.
[3] Zinsli, citato in Alagna Valsesia. Una comunità walser, p. 23.
[4] AA.VV., Alagna Valsesia. Una comunità walser, p. 3.
[5] AA.VV., Alagna Valsesia. Una comunità walser, p. 121.
[6] C'era una volta...Rimella e le sue storie, pp 9-10.


Si ringraziano, in ordine di incontro: Lorena, Paola Borla, Paola Leonoris, Elisa e Donata Farinetti, l'albergo Montagna di Luce e la sua disponibile proprietaria, Paola Gilardone, Massimo Stainer, la signora Maria Guala, Piera Rinoldi, la signora Ada, le sorelle Franca e Renata con l'Albergo Fontana, il signor Nando e sua moglie. Goddanke!

Ringrazio inoltre, per l'attenzione, le indicazioni preziose e il rigoroso inquadramento della complessità della "questione walser" in Valsesia, il professor Matteo Rivoira, dell'Università degli Studi di Torino, e Davide Filiè, docente di titschu.


Per le trascrizioni in titschu, ho consultato:

  • F. Antonietti (a c. di), Per un'ortografia delle parlate alemanniche in Italia, 2010.
  • P. Borla (a c. di), Ts Remmaljertittschu vàr d chend. Manuale di lingua tittschu, 2009.
  • L. Gaeta, M. Bellante, R. Cioffi, M. Angster, Conservazione e innovazione nelle varietà walser: i progetti DiWaC e ArchiWals, pre-print, https://hdl.handle.net/2318/1703988 .

Le trascrizioni, così come il resto delle considerazioni sul popolo e la lingua walser, non hanno pretesa di scientificità. Consigli e suggerimenti di modifica sono ben accetti al seguente indirizzo: chiara.gioffredo91@gmail.com

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